Gaia Incarbone
Credevamo questa valle contenesse il mondo intero:
che fosse sette volte il mare, quattro volte il terreno;
sulle strade di catrame, la tua bici era un veliero…
Ma non è che una provincia dove, forse, passa il treno.
Oggi ho tre biglietti, due scaffali ed uno scatolone
ed ho le ossa della schiena già ricurve di sudore.
E con questo pago il bollo, la passata ed il sapone,
in cambio dello scrocchio colorato dei semi delle more sotto i denti.
In cambio dello scroscio lento dei ruscelli
e poi dei prati con i funghi a far da case per le serpi;
e del nostro corpo al sole, con la noia tra i capelli.
Con il rischio di annoiarvi, nel mio straparlare di sterpi,
io qui rivendico: il guizzo argentato delle anguille,
nei solchi di sabbia; il balzo dorato delle salamandre
come vermi di gomma e caramello tra le tue papille,
rubati e poi mangiati, nascosti. Tra fiori di solandre
vorrei essere: polpa che si sfalda, gheriglio che si spezza,
legna dura che crepa la pece morta di cui è sommersa,
paglia, stoppa e stelo dentro ad una bambola di pezza,
Ma non potrei essere, casa senza quasi essermi persa.
Persa nell’odore nero del bitume, che cola in chiazze,
giù: nel torrente della nostra infanzia, tra le foglie arse.
Mi dico: voglio far qualcosa per quest isola, nelle piazze:
per te, per me e per gli alberi, tra le dolci acque sparse.